Giovani e senior, dialogo possibile?
Il volontariato dice sì.
“Le nuove generazioni usano in modo diffuso la rete e i social network, li considerano come parte integrante della propria realtà e vita sociale. Il web è considerato un mezzo imprescindibile per acquisire informazioni e i social uno strumento utile per scambiare opinioni, confrontarsi, allargare conoscenze, raccontare di sé.” Così I’Istituto Giuseppe Toniolo inizia la presentazione dell’edizione 2017 della propria indagine annuale “Osservatorio Giovani”. In un estratto poi indica che “Il 90,3 % dei giovani italiani tra i 20 e i 34 anni ha un account Facebook: il 93% di loro lo usa quotidianamente.”
Ma le giovani generazioni non solo sono le prime native digitali, sono anche cresciute con gli smartphone, i voli low cost, e la lingua inglese un po’ dovunque. Sono già cittadini del mondo anche coloro che non hanno mai varcato i confini dell’estrema periferia della loro città.
Mio marito ha 57 anni e mio figlio 3. Quando mio figlio avrà 18 anni, mio marito avrà superato i 70. E io mi domando: cosa ne capirà delle difficoltà di un adolescente, mio marito, quando nostro figlio le attraverserà?
Perché i codici, i linguaggi, gli strumenti espressivi di un giovane e quelli di un adulto, magari anche un po’ più senior, sono davvero lontani anni luce. E non basta avere valori comuni per incontrarsi, dialogare e collaborare, occorre anche avere modo di far incontrare questi valori.
Dalla ricerca dell’Istituto Toniolo 2016 si legge che i giovani hanno una spiccata identità generazionale, sono ottimisti di fondo, hanno voglia di essere protagonisti in processi di cambiamento e innovazione. E ancora: sono aperti alla diversità, non sono remissivi e sono determinati, orientati al risultato, in grado di fare rete. Credo che questi siano valori nei quali adulti e senior si riconoscono fortemente tanto quanto i giovani, e che denotano una comunanza di intenti e di attitudini quasi sorprendente se confrontata all’immagine stereotipata che si ha dei giovani “sdraiati” (come il titolo di un bellissimo libro di Michele Serra).
La descrizione dei giovani nella ricerca Toniolo, però, continua l’elenco delle note qualitative e aggiunge che: hanno fiducia in sé stessi, sono ambiziosi, cercano il riconoscimento delle proprie competenze e di incidere sul rinnovamento come discontinuità rispetto al passato. Ecco allora che sorgono alcune possibili frizioni generazionali perché i giovani hanno desiderio e bisogno di essere protagonisti, di essere portatori di un contributo, bisogno di lasciare un segno.
I giovani sono soggetti da supportare nel loro processo di crescita e di apprendimento, e al tempo stesso attori significativi all’interno dei loro contesti di vita: hanno questo ruolo ambivalente nella società che rende difficile, per chi sta loro attorno, capire dove e come porsi nei loro confronti. Infatti – sempre dal rapporto Toniolo 2016 – è forte la loro domanda di impegno sociale e di azioni concrete a fronte, però, di una generale carenza di proposte credibili e condivisibili. Attualmente in Italia i giovani si sentono poco valorizzati rispetto alle loro possibilità.
Il mondo del volontariato e del terzo settore non fa eccezioni: il primo report nazionale di CSVnet di fine 2015 indicava che solo il 4% delle Organizzazioni di volontariato in Italia ha un presidente con meno di 35 anni (i volontari in questa fascia di età sono il 23,9%), e il 10,3% è fra i 35 e i 44 anni. Il problema è evidente, infatti, nel terzo settore i giovani che si avvicinano alle associazioni consolidate non riescono a trovare lo spazio che cercano perché sono esigenti, impazienti, e hanno bisogno di essere influenti, tutte caratteristiche legittime e anche positive, ma che mal si combinano con la modalità organizzativa “vecchio stile” sulla quale si basano queste associazioni: modalità che per decenni è stata vincente e che ha portato l’Italia ad essere un’eccellenza di solidarietà.
È probabile che quel 4% di organizzazioni con presidenti giovani siano, per lo più, associazioni di nuova fondazione costituite solo da giovani, quindi tra un gruppo di pari, nelle quali confluiscono anche i ragazzi che hanno fatto esperienza in un’associazione consolidata, e ne sono usciti delusi.
Eppure il non profit non può permettersi di separare le generazioni, sarebbe illogico, contrario ai principi di solidarietà e relazione che lo permea: è indispensabile “stare uniti” perché individualmente non si va da nessuna parte.
Ma allora, da che parte prenderla? Dalla messa in comune delle proprie peculiarità: in un modello dove ognuno continua a fare quello che sa fare e lo farà anche meglio a patto che insegni qualcosa a qualcuno e impari a sua volta.
La relazione con i giovani deve passare dall’ascolto alla co-progettazione, prevedendo una contaminazione creativa fra diverse professionalità e talenti, cercando di fare spazio al senso di appartenenza di ciascuno e alla condivisione di un’identità sociale comune. La partecipazione è occasione di acquisizione di quel senso di appartenenza e, al tempo stesso, è una forma di responsabilizzazione verso l’associazione.
Non bisogna aver paura delle partecipazione giovanile sebbene occorra un vero dialogo intergenerazionale. Servono, infatti, strumenti adatti ad accompagnare la relazione: nella comunicazione tra senior e giovani, nel facilitare lo scambio e l’interazione tra loro, per l’ascolto dei bisogni e la raccolta delle idee, ma anche per favorire il processo di creazione delle idee nella formalizzazione di regole e accordi reciproci.
Insomma: è un cammino difficile, affascinante, indispensabile, che va condotto con pazienza e perseveranza. E tra 15 anni vi saprò dire come saremo messi tra mio figlio e mio marito.
Credits: Immagine di Mark Faviell rilasciata sotto Licenza Creative Commons
Dopo anni di lavoro nei paesi in via di sviluppo, da 20 anni si occupa di comunicazione nel mondo del non profit. In Ciessevi è Referente comunicazione e progettualità.