Marisa, volontaria senior dell’ascolto
L’8 marzo 2023, ore 14:31, presso Clinica Mangiagalli di Milano è nato mio figlio Ettore. Un simpatico bambino di quasi 3Kg, purtroppo sofferente di agenesia renale. In pratica è privo di uno dei due preziosi organi e quello esistente presenta sfortunatamente qualche problemino.
Dopo il parto Ettore è stato quindi preso in amorevole cura dal reparto di terapia subintensiva neonatale della struttura, luogo protetto dove i genitori possono accedere solo tramite il rispetto di strette misure di sicurezza sanitarie e in possesso di un badge dedicato. Un luogo dove il tempo è scandito dai bip dei macchinari e dove si vive di fatto sospesi: si sa quando si è entrati, non si sa quando si verrà dimessi.
Ad alleviare questa precarietà, oltre uno staff medico tecnicamente e umanamente preparatissimo, c’è l’accoglienza e l’assistenza delle volontarie anche senior di ABIO – Associazione per il Bambino in Ospedale ODV, realtà attiva dal 1978 e a oggi presente in 30 reparti ospedalieri della città con oltre 300 volontari.
Tramite loro ho avuto modo di intervistare Marisa Malvicini, 68 anni, storica volontaria e oggi co-responsabile del settore volontariato dell’associazione. Con un passato lavorativo nel settore amministrativo di diversi ospedali ci racconta che, come nel suo caso, l’incontro con il volontariato può dipendere da una miscela di radici profonde e incontri casuali: “Mi sono avvicinata ad ABIO più di 20 anni fa seguendo, diciamo, il solco di una sensibilità famigliare che mi porta istintivamente a prendermi cura dell’altro, insomma al non rimanere indifferenti alle sue sorti. Fino a che ho lavorato lo spendermi per gli altri l’ho agito però solo in maniera informale, fuori dal volontariato organizzato. Una volta in pensione ho iniziato a rendermi conto di avere tempo, i figli erano cresciuti e quindi potevo aderire a un volontariato più formale e strutturato. Ero certa solo di voler impegnarmi per i più piccoli, questo sì. La scelta di ABIO, invece, confesso, è stata casuale…”.
Casuale? “Sì, un giorno ho sfogliato Vivimilano, l’inserto degli eventi del Corriere della Sera, inserto che più volte l’anno ospitava gli appelli di associazioni in cerca di volontarie e volontari. Mi sono subito interessata specificatamente a chi opera nel mondo dei bambini e così ho letto di ABIO. Di lì a poco partiva il loro corso di formazioni per aspiranti volontari, ed eccomi qui da più di venti anni!”.
Mi permetta, ma dopo una vita passata a lavorare, arrivata finalmente al meritato riposo, cosa l’ha spinta a imbarcarsi in una forma di volontariato così esposta alla sofferenza? “La domanda è lecita e sorse anche a me proprio durante quel corso di formazione. Anche perché fortunatamente con i miei figli non ebbi alcuna esperienza di ospedalizzazioni pediatriche. E me la ponevo conoscendo la mia sensibilità. Per dire, sono la tipica spettatrice che piange quando vede i film tristi e quindi erano un pochino preoccupata nel pensare come avrei reagito in determinati luoghi che, non sempre, ma sanno anche essere carichi di sofferenza. Quando però varchi la soglia dell’ospedale quel pensiero, quella preoccupazione cambia grazie al fatto che vedi che i genitori ti aspettano, ti aspettano pure i bambini più grandi… insomma, percepisci concretamente che sei utile e quindi l’innegabile sofferenza che incontri non è più elemento prioritario ai tuoi occhi”.
Ma in un contesto così delicato un volontario senior può fare la differenza? “Decisamente. Come qui in Clinica Mangiagalli, vi sono strutture dove di solito si tende a impiegare di più i volontari senior, proprio per valorizzare anche quella sensazione di accoglienza e fiducia che magari un volontario ventenne non riuscirebbe a garantire a genitori quarantenni. Non dimentichiamo che parliamo di neonatologia, dove sono accolti papà e mamme con figli anche gravemente malati o nati prematuri… quindi spaventati, disorientati, serve proprio garantire un’assistenza umana che trasmetta sicurezza”.
Esiste in ABIO un punto di contatto tra differenti generazioni di volontarie e volontari? “I giovani hanno una carica innovativa, portano voglia di fare e di sperimentare, ma non è per niente detto che la stessa voglia di fare e la stessa carica non si trovi anche in chi è andato in pensione e ha voglia di mettersi in gioco. Ovvio che la spinta maestra è quella di operare a contatto con i bambini, ma non dimentichiamoci che ogni bambino è a sé e quindi ogni incontro è veramente unico. È quindi proprio il bambino il punto di incontro generazionale. Poi ognuno, ogni età arriva a quell’obbiettivo comune con i propri strumenti”
Visto l’attività su di un campo così delicato e provante, non rischiate il burn out? “Parlo per me. Di certo dedico molto della mia vita ad ABIO, ma ABIO non è la mia vita. Oltre a tante altre cose/persone che compongono le mie giornate, sono nonna di 4 nipoti. Non ho mai sperimentato quindi il burn out, anche perché in venti anni in questa associazione il mio ruolo è cambiato. Da semplice volontaria sono diventata responsabile di un piccolo gruppo di volontari, poi di un gruppo un po’ più grande, poi sono entrata nel consiglio direttivo, insomma ho visto ABIO costantemente da punti di vista differenti, ricoprendo anche ruoli non operativi. Impegni necessari questi, ma che forse sono la parte meno gratificante rispetto all’operare sul campo dove si raccoglie la bellezza anche di semplici soddisfazioni, come il sollevare la madre dalla fatica di dover giocare con il proprio bimbo, in modo che vada a farsi un caffè e quindi vedere nel suo sorriso tutta la gratitudine”.
Mai pensato di mollare quindi? “Sì c’è stato un momento difficile della mia vita, quando avevo mia madre sofferente di Alzheimer, patologia come potete sapere molto ‘coinvolgente’. Poi la mia famiglia mi ha fatto ragionare a mente fredda. Mi ha detto che se lasciavo l’associazione perché in associazione non mi trovavo più bene, allora la mia scelta era corretta… ma se stavo lasciando di fatto una parte così importante di me per un momento seppur difficile, non avrei dovuto. E così ho fatto. La famiglia mi ha aiutato insomma”
Chi vuole entrare in ABIO deve partecipare a una seria e strutturata formazione. Oltre ad armarsi delle nozioni c’è invece qualcosa che il volontario deve lasciare fuori dal reparto? “Si lasciano fuori dal reparto i propri problemi. Ciò che ci si deve portare dietro è il proprio sé, che metta in pratica ciò che hai imparato nella formazione. Centrale, di fatto, è primariamente la capacità di ascolto e accoglienza, indipendentemente dall’attività che farai. A conti fatti ci facciamo ‘usare’ da chi in quel momento ha bisogno di noi, non partiamo quindi con preconcetti operativi, non siamo noi il centro di ciò che facciamo. Non stai salvando il mondo insomma, è volontariato. Il mettersi all’ascolto è un’attitudine ed è profondamente al centro dei nostri corsi di formazione, perché è una cosa da allenare, a tutte le età. Nessuno quindi, su questo aspetto specifico, nasce imparato o con una marcia in più, senior o meno che sia”.
Marisa, come coordinatrice ABIO, mi racconta che in questo 2023 si sta battendo perché si torni a essere attivi nei reparti con le stesse modalità pre-pandemia, evento traumatico che ha pesantemente cambiato la quotidianità operativa delle nostre volontarie e volontari. Lo vuole fare per garantire presenza quantitativa e qualitativa, perché ancora meglio e ancora di più chi arriva in ospedale trovi sempre qualcuno ad accoglierli con un sorriso e la voglia di ascoltare.
E Marisa, semplice e privata cittadina, cosa sogna per il 2023? “Riprendere a viaggiare! Considerando che ho 68 anni, mi posso ancora permettere di andare lontano e vorrei riprendere questa abitudine con il marito, abitudine che avevamo stoppato proprio con la pandemia. Dovevamo partire per vedere le aurore boreali a inizio marzo 2020… la valigia era pronta e abbiamo dovuto disfarla, che sofferenza!”.
Prossima tappa allora? “Cascate del Niagara questa estate!”.
Francesco Bizzini, responsabile ufficio stampa CSV Milano – Centro di Servizio per il Volontariato Città Metropolitana di Milano.