Gianni volontario senior al fianco delle vittime
4 dicembre 1990, ore 10:33 a Casalecchio di Reno, un Aermacchi MB-326 centra l’Istituto Tecnico Salvemini e si porta via la vita di 12 studenti, ferendo 88 persone delle quali 72 riportano invalidità permanenti.
Nel 1998 la Cassazione decide che «il fatto non costituisce reato» derubricando la tragedia a tragica fatalità. Punto, chiuso, stop… o forse anche no.
Se è vero, infatti, che il tipico velo pietoso, una delle specialità tutte italiane, fu steso sul dolore di un’intera Comunità, oggi da sotto quel velo spuntano dei fiori rigogliosi: una Casa della Solidarietà, lo sportello e sede del Centro delle vittime di Reato e Calamità (che dal 2005 segue 400 nuovi casi all’anno, 2 al giorno!) e un Emporio solidale che sostiene ben 400 famiglie.
Giardinieri, artigiani, di questa fioritura sono i volontari e le volontarie dell’Associazione Vittime del Salvemini – 6 dicembre 1990. Tra loro l’instancabile Gianni, oggi pensionato 71enne, ma ai tempi vicepreside dell’Istituto tecnico. Lo incontro e gli chiedo a bruciapelo il senso e il valore di quel loro volontariato ancora oggi così attivo, a 31 anni dalla tragedia.
“Un evento del genere poteva scardinare la Comunità nella quale vivevamo e lavoravamo. Grazie al Volontariato è stato possibile impegnarsi su dei percorsi che hanno teso alla difesa della Collettività, individuando le ragioni per serrare di nuovo le fila invece di optare per un seppur comprensibile si salvi chi può. Una risposta comune è necessaria per salvaguardare la tenuta di una comunità che invece potrebbe lasciarsi andare, cadere nel cinismo, cedere alla rassegnazione. Questa è la linfa per una Società che vuole rimanere in vita. Questo vale per l’aereo che entra nella scuola o per il terremoto o per il treno deragliato a Viareggio o per il ponte di Genova… dopo questi avvenimenti non puoi rimanere indifferente e neutrale”.
Una domanda forse banale, ma che mi viene spontanea. Chiedo a Gianni chi glielo fa fare di rimanere ininterrottamente ancorato, tra tutti i volontariati che potrebbe scegliere, a quella missione iniziata 31 anni fa: “Per me è stata una scelta spontanea e naturale. Dal giorno della strage io e molti altri ci siamo attivati immediatamente. I primi anni ovviamente l’impegno è stato legato all’emergenza e alla contingenza della situazione. Assistere i feriti, facilitare la ripresa dell’attività scolastica e poi da lì i temi si sono sviluppati mettendo al centro sempre le vittime e declinando tale sostegno a diversi altri campi e sfide che superano il Reato e la Calamità e toccano anche chi, per esempio, rimane vittima della Crisi Economica”.
Chiedo se un volontario Senior possa quindi non farsi schiacciare dalla zavorra di una Memoria che, di anno in anno, può diventare sempre più difficile da portare: “Non farsi zavorrare non è possibile. Sono cose che ti rimangono dentro e che in qualche modo devi gestire. Ognuno ha il suo modo. Io ero vicepreside in quel momento e ho fatto questo percorso, ma ho avuto tante colleghe e colleghi che non hanno fatto lo stesso percorso, gli stessi famigliari delle vittime che hanno scelto un livello di impegno diverso. Insomma, ognuno di noi davanti a una tragedia, piccola o grossa, è costretto a rielaborarla. Lo stesso vale per l’attualità della pandemia dove si dice che ne usciremo meglio. No: non se ne esce né meglio né peggio da queste situazioni. Sono situazioni che ti segnano, dopo di che dipende dal tuo DNA. Le persone che hanno determinate propensioni verso la coesione sociale, le sviluppano ulteriormente. Di certo non se ne esce come prima, comunque e di certo non meglio”.
Ma allora un Senior non ha una marcia in più nel mettersi in gioco nel volontariato con tutto il suo bagaglio di vissuto? “La marcia in più della nostra generazione è il tempo libero derivato dalle garanzie sociali che a noi non sono mancate. Però non ci inganniamo. I giovani, seppur complicati da ingaggiare, hanno voglia di fare. Ognuno ha il suo tempo però. Pensiamo solo che qui a Casalecchio sono tantissimi gli studenti di allora che oggi sono quasi cinquantenni che stanno, dopo 30 anni, riprendendo un impegno diretto su queste tematiche. Dopo gli anni del gettarsi nel mondo del lavoro, di costruirsi una famiglia, ora che hanno i figli arrivati all’età che era la loro il giorno della tragedia, eccoli ritornare. In questi trenta anni quel qualcosa in loro non si è mai spento, la voglia di mettersi in gioco era lì che covava e oggi è riaffiorata. Ogni generazione, insomma, ha i suoi percorsi, i suoi modi di affrontare i temi della socialità e dell’impegno nel volontariato”.
Ma non si rischia il burn out, lo strafare con temi così forti? “Sì, decisamente. Mi ritengo un soggetto a rischio se così mi posso definire. Però quando l’impegno è spontaneo, su temi sentiti, non è proprio un peso!”.
Il “piglio” infervorato di Gianni rende questa ultima risposta assolutamente credibile. Ci crede, ci crede molto e si sente. Oggi più che mai lui e l’Associazione lottano perché la Riforma della Giustizia tenga conto della figura della vittima “non solo come eventuale parte civile, ma come soggetto che deve essere obbligatoriamente ascoltato, al quale va fornito lo stesso garantismo degli imputati, cioè avere accesso alle informazioni sulle fasi del processo o all’acquisizione degli atti. Perché il risarcimento pone la vittima fuori dal processo, quando invece le vittime vogliono solo che nelle aule risuonino due parole: MAI PIÙ. Per far sì che sia veramente un mai più lo Stato deve però riflettere, insieme alle vittime e intervenire sulle cause, anche remote, che hanno portato alla tragedia. Il risarcimento è dovuto, ma non può chiudere la questione”.
Gianni, concludendo l’intervista, mi invita infatti a controllare quale fu la notizia di cronaca che rubò il sonno della nazione dopo soli otto giorni da quella vergognosa sentenza della Cassazione del 1998. Con una breve ricerca su Google trovo la prima pagina del Corriere della sera di mercoledì 4 febbraio di quell’anno: “Jet americano sulla funivia, è strage”.
“Ecco Francesco. Se avessero dato voce alle vittime, magari si sarebbe potuto riflettere sulle dinamiche delle esercitazioni militari nei nostri cieli. Quelle che chiamiamo tragedie sono avvenimenti che generano insicurezza sociale. Quando da volontari ci muoviamo, non lo facciamo quindi solo per le vittime che “sono state”. Ormai quelle non tornano più. Noi solleviamo il problema sulle vittime che “potranno ancora esserci” e può essere chiunque, sia chiaro. Chiunque poteva essere sulla funivia del Mottarone o sul ponte di Genova o essere operaio alla ThyssenKrupp”.
Mai più.
immagine di dominio pubblico del disastro aereo, tratta da wikipedia
Francesco Bizzini, responsabile ufficio stampa CSV Milano – Centro di Servizio per il Volontariato Città Metropolitana di Milano.