Spiritualità: un confronto tra Oriente e Occidente

Marcello Ghilardi è professore associato di Estetica e di Philosophy of Interculturality presso il Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova. Presso lo stesso dipartimento è membro dei gruppi di ricerca ReSTI (Religions, Spiritualities, Traditions, Inquiries) e HermAes (Ermeneutica, estetica e studi interculturali), e vice-direttore del Master in Studi Contemplativi. È autore di numerose pubblicazioni.

Marcello Ghilardi, intervistato in questo articolo

Per spiegare il pensiero taoista, lei utilizza un aneddoto relativo a un famoso maestro e pensatore: Zhuangzi (o Chuang-tzu).

L’apologo fa riferimento ad un allievo che si stupisce nel vedere il maestro sereno e composto a pochissimi giorni dalla morte della moglie. Il maestro risponde di aver provato dolore, all’inizio; ma la riflessione gli ha fatto comprendere come la morte sia un passaggio naturale del percorso dell’esistenza, quello che riporta nell’alveo del Tao – che possiamo interpretare come il grande fiume della vita nel suo flusso – ciò che un giorno ne è emerso: l’individualità singolare.

Utilizzando una metafora potremmo dire che ogni essere, come un’onda che si forma, esiste e poi si frange a riva, è in realtà eterno perché da sempre parte dell’oceano infinito.

Questo esempio mette in evidenza un diverso atteggiamento della sensibilità taoista rispetto alle tradizioni di pensiero più radicate nel contesto europeo, in cui tende a prevalere una visione più drammatica e agonistica, più focalizzata sulla singolarità irriducibile dell’onda, potremmo dire, in cui l’individuo cerca una spiegazione razionale al morire, al proprio morire; nel pensiero cinese classico, invece, l’esistenza individuale è ricompresa nell’oceano eterno da cui viene e a cui ritorna.

È un problema di senso: “Perché io”, “Perché così in fretta”, “Perché ora”…?

Nel pensiero tradizionale cinese non c’è un appello forte a rendere conto della sensatezza dell’esistenza. La vita si auto-giustifica. Il fatto che si è vivi basta a se stesso; vi è piuttosto la ricerca di un’armonia complessiva, in rapporto alla quale poter sviluppare una forma di gratitudine.

Nella cultura europea il “senso” si lega anche a un’idea di direzione, a domande come: “Dove stiamo andando?”. La risposta può variare – verso una vita migliore, il regno dei cieli, una società senza classi – ma la struttura di fondo della questione resta analoga.

Nel pensiero cinese classico, soprattutto di matrice taoista, il movimento non è lineare e “in avanti”, piuttosto è circolare. Cicli più o meno grandi che si ripetono eternamente, come le stagioni. La domanda giusta non è: “Perché?” (“Perché il mondo va così?”), ma: “Come?” (“Come faccio a convivere in esso?”).

E qual è la risposta?

La risposta cinese passa in genere per una riduzione della centralità dell’ego, della volontà di affermazione e di possesso. Anche nel mondo europeo si trovano risposte simili, nella tradizione neoplatonica, nella mistica, per esempio.

È importante sottolineare che non si deve ipotizzare una superiorità di una tradizione di pensiero rispetto a un’altra. Entrambe le tradizioni contengono elementi fecondi e vitali che possono essere utilizzati come risorse a seconda delle situazioni.

I percorsi prevalenti nella cultura euro-americana hanno spesso puntato a rinforzare l’io per renderlo capace di confrontarsi “eroicamente” con il mondo e le sue avversità, scoprendo la straordinarietà del soggetto, la sua singolarità irriducibile e portatrice di diritti.

Nel pensiero cinese il “fare” è tanto più efficace quanto più emerge in assenza di un io “forte”, autarchico, che al contrario diviene soprattutto sensibile e ricettivo, capace di aspettare e di adattarsi alle situazioni assecondandone le caratteristiche.

Capisco che è importante ascoltare sé stessi ed il “qui ed ora” del mondo in cui si vive. È possibile imparare a qualsiasi età?

Non ci sono preclusioni di età. Anzi, maturità ed esperienza aiutano a capire che non sempre puntare ad imporre sé stessi è la soluzione. In qualche modo si tratta di imparare a rilasciare piuttosto che contrarre “i muscoli dell’io”.

A questo fine il pensiero di diverse tradizioni asiatiche, assegna una grande importanza al respiro, metafora del movimento ciclico della vita, in cui ad una inspirazione segue una espirazione, a una contrazione un rilascio, in un processo continuo dalla nascita alla morte. È anche una pratica di equilibrio utile a rilasciare le tensioni eccessive e certe forme di ansia e di preoccupazione.

In un saggio lei ha scritto che è importante imparare a tenere insieme le dimensioni materiale e spirituale della vita. 

Nel pensiero indiano troviamo un termine importante: advaita, cioè “adualità”, “non-due”. Sottolinea il fatto che corpo e mente, materia e spirito – ma anche io e altro, vita e lavoro – pur essendo distinti (perché hanno le loro specificità), non sono separati. Formano una unità.

Come una moneta che ha due lati diversi ma inseparabili o appunto come il respiro, che è costituito da due movimenti che però costituiscono un intero. La vita è fatta di elementi materiali che si possono misurare e di elementi spirituali non quantitativi, incommensurabili; i due aspetti non sono separabili e soprattutto uno non deve predominare e schiacciare l’altro.

Le persone, anche a causa delle logiche del nostro mondo in cui è premiata una prospettiva materiale e prestazionale, fanno fatica a staccarsi da questa mono-visione. Una volta in pensione è più facile che comincino a guardarsi intorno e a partecipare della vita degli altri, anche attraverso forme di volontariato in cui l’obiettivo non è promuovere sé stessi ma migliorare il mondo.

Questo credo sia un contributo importante che possiamo ricavare da alcune tradizioni dell’Asia: concepire il legame tra gli individui non come una catena ma come una rete, in cui ciascun nodo è legato agli altri. Se una maglia si rompe la rete continua a svolgere la sua funzione, se in una catena un anello si rompe, tutto crolla.

Per tornare al punto da cui siamo partiti e con questo chiudere, mi viene in mente un saggio in cui l’autrice, confrontando l’Amleto di Shakespeare con una tragedia cinese, sottolinea che la morte è presente nella cultura tragica cinese ma è meno temuta rispetto a quella occidentale.

Ampliando il proprio focus dall’Io individuale come centro del mondo, alla rete che lega l’Io al mondo, è più facile accogliere la morte: se io scompaio, la vita di cui sono per sempre parte prosegue comunque il suo percorso. Se invece mi identifico totalmente con l’onda che si frange a riva, allora l’angoscia è estrema, perché con il mio “io” finisce tutto.

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Psicologo. Dopo più di 40 anni di lavoro nelle organizzazioni ha deciso di dedicare il suo tempo alla famiglia e allo studio delle religioni e della spiritualità nel mondo.

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