Accompagnare al fine vita

Intervista a Elisabetta Valentini.

Elisabetta Valentini, Psicologa e Psicoterapeuta, ha conseguito un Master di II livello in “Psiconcologia e Relazione con il Paziente” e un Dottorato di ricerca in Scienze Mediche, Cliniche e Sperimentali. Da diversi anni si occupa di sostegno psicologico a pazienti oncologici, a persone alla fine della vita e ai loro familiari.

Come è arrivata ad occuparsi di fine vita?

Ho cominciato a lavorare come psicologa del lavoro ma il tema della morte, che mi ha accompagnato fin da bambina, continuava a risuonarmi dentro e così ho deciso di licenziarmi e di specializzarmi nell’accompagnamento al fine vita. Ho iniziato ad operare negli hospice e a casa delle persone, e poi ho aperto il mio studio. Oggi seguo i malati in fase avanzata di malattia e, soprattutto, le persone che sono loro vicine per aiutarle ad accompagnare questo Passaggio e ad attraversare la perdita.

Cosa vuol dire che il tema della morte l’ha accompagnata fin da bambina?

Da piccola ho subito un’operazione a cuore aperto. Non ho molti ricordi ma ho assorbito quelli dei miei genitori e più tardi ho saputo che nel libro scritto dal chirurgo che mi aveva operata, lui raccontava che la sera del giorno prima di operare un bambino andava a guardarlo negli occhi e capiva chi ce l’avrebbe fatta e chi no. Sono convinta che quell’esperienza mi sia rimasta dentro.

C’è stata una evoluzione nel mio rapporto con la morte, prima c’era una grande angoscia che poi ho progressivamente elaborato grazie all’aver tentato di trasformare la mia ferita in servizio per gli altri. Non ho cercato di seppellire il terrore da qualche parte ma ci sono entrata e ne ho fatto un oggetto di studio interiore e di lavoro con e per gli altri.

Perché le persone vengono da lei?

Vengo contattata da persone che si trovano in vari stadi della malattia ma tendenzialmente quando ancora c’è speranza che tutto possa volgere al meglio. È più difficile che accada quando c’è la consapevolezza dell’esito infausto. In questo caso sono i famigliari a contattarmi. Ritengo che sia davvero molto importante sostenere e accompagnare chi accompagna perché la morte ha molto a che fare con una relazione intima.

C’è poi chi non ha una malattia così grave da mettere realmente a rischio la sua vita o che non ha nulla, ma ha avuto una esperienza che lo mette di fronte alla propria mortalità come fatto reale, non una possibilità ma una certezza.

Il problema è che nella nostra cultura la morte è evitata.

Si cerca di metterla sotto il tappeto anche quando è lì, di fronte. Ricordo il caso di un malato terminale per un cancro ai polmoni; mi avevano chiamata perché il paziente “non reagiva”. Ho provato a parlargli ma mi è stato subito chiaro che non aveva neanche l’energia per rispondere. Si stava ritirando e la moglie ed il medico, in totale buona fede, stavano cercando di suscitare delle reazioni che non potevano esserci.

Si crea allora una situazione di non verità che impedisce di fare l’unica cosa che realmente conta in quei momenti: stare nella consapevolezza della morte che sta arrivando ed aprirsi ad una relazione autentica in cui, da una parte e dall’altra, sia possibile esprimere tutto quello che urge dentro o anche, semplicemente, rimanere in silenzio vicini. Paradossalmente la protezione reciproca tra malato e famigliari può creare un circuito di non detto che non aiuta realmente né l’uno né gli altri.

Quindi è meglio dire sempre la verità?

Sono convinta che la misura giusta sia la verità che il malato è in grado di accogliere che, in ultima analisi, è quella che lui stesso richiede. Con i famigliari sono più esplicita perché non puoi accompagnare realmente qualcuno se non sai a cosa sta andando incontro. Per i parenti spesso il dolore più grande è il senso di colpa: “Se avessi fatto … se avessi detto …”, ma se non sai come stanno le cose è difficile rendersi conto.

Cosa spaventa in specifico le persone all’idea della propria morte?

La vita ha molto a che fare con il controllo di sé, in particolare del proprio corpo. Con l’avanzare della malattia la progressiva perdita della libertà e dell’autonomia spaventa molto. Le persone hanno la speranza di morire “sani”.

Morire bene dipende molto dai significati spirituali più profondi che la persona è riuscita a costruirsi in vita che, in ultima analisi, sono fortemente legati a come ha vissuto. Chi ha dato un senso al dopo accoglie con più serenità la morte, e non dipende necessariamente dall’avere una fede. Trovo molto utile riuscire a maturare una prospettiva che vede nella morte l’ultimo tratto della vita. Non una cosa diversa dalla vita ma l’ultimo importante Passaggio.

È così per tutti e lo è anche per me. Siamo tutti uguali rispetto alla morte. Far rientrare la morte nella normalità della vita aiuta ad accoglierla con maggiore accettazione, con tristezza certamente, ma non come qualcosa che non dovrebbe esserci. Perché bisogna anche saper morire. Ho visto persone rimanere in agonia per giorni e altri che sono andati via velocemente. Sono convinta che questo dipenda anche dal lasciarsi andare affidandosi al mistero.

Come bisogna vivere per morire bene?

La connessione con sé stessi, con i propri valori e significati sperimentati e interiorizzati, in modo autentico, onesto e curioso, ho visto che fa la differenza. Il significato più profondo che diamo all’esistenza, qualsiasi esso sia, ci guida in vita e anche all’accettazione della morte, che della vita è l’ultimo punto.

Il rimpianto è spesso una sofferenza per chi è vicino alla fine ma non tanto per quello che non ha fatto o raggiunto, ma per come è stato con gli altri. Il bilancio che sovente i morenti fanno è in positivo per quanto sentono di essersi dedicati agli altri, una cosa che dipende esclusivamente da noi e su cui possiamo intervenire fino all’ultimo.

Lei suggerisce anche a chi non è malato terminale di cominciare per tempo a parlare della morte con chi è vicino?

Si, certamente. Credo sia importante. Stare nella verità con qualcun altro oltre che se stessi, aiuta a vivere l’esperienza in modo più lucido, onesto ed aperto, qualità che secondo me contribuiscono anche a sviluppare coraggio. Ho visto persone che desideravano parlare della loro situazione o del dopo, ma che venivano chiuse da un commento, una battuta detta con l’intenzione di alleggerire ed aiutare ma che in realtà aveva l’effetto di bloccare l’espressione della paura e la possibilità di stare con ciò che emerge. L’obiettivo non è e non può essere evitare il dolore e la sofferenza ma piuttosto non farsene travolgere per arrivare all’ultimo momento della nostra vita con un senso di verità e fiducia.

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Foto fcscafeine su licenza iStock

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Psicologo. Dopo più di 40 anni di lavoro nelle organizzazioni ha deciso di dedicare il suo tempo alla famiglia e allo studio delle religioni e della spiritualità nel mondo.

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