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Rapporti intergenerazionali

Fine degli studi, inizio del lavoro: mutamenti tra generazioni

La precocità del ruolo lavorativo nelle coorti più anziane.

Tra i dati, poco noti, ma che ben evidenziano il mutamento sociale verificatosi in Italia tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, vi sono quelli relativi al ‘timing’ con cui si sono verificati le due principali transizioni che segnano, nelle sue fasi iniziali, lo status socio-economico dei soggetti: l’uscita dal sistema formativo e l’entrata nel mondo del lavoro.

Per evidenziare tale mutamento metteremo a confronto cinque coorti di nati: tra il 1940 e il ’44; tra il 1945 e il’49; tra il 1950 e il ’54; tra il 1955 e il ’59; tra il 1960 e il 1964.

Consideriamo dapprima l’uscita dal mondo della scuola.

Come evidenzia il grafico n.1, sia tra i nati nel 1940-44 che tra quelli nel 1945-50, risalta la presenza di due gruppi decisamente consistenti: uno costituito da chi ha terminato la scuola a 11 anni (pari rispettivamente al 25% e al 20%), l’altro (pari al 24-20%) da chi l’ha terminata a 14.

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Grafico n. 1: Età all’uscita dal sistema formativo per coorte di nascita

Vale a dire che, poiché in queste coorti, quasi il 20% ha smesso di andare a scuola a 12-13 anni, e un altro 3-4% prima degli 11, circa la metà degli attuali 67-76enni è uscita dal sistema formativo in età pre-adolescenziale, avendo al massimo la licenza elementare, poco meno di un quarto attorno ai 14 anni con, al massimo, la licenza media (o il diploma di avviamento professionale) e il 15-20% tra i 15 e i 17 anni avendo, presumibilmente, una formazione professionale. Solo il 5% circa ha proseguito fino al diploma o alla maturità e un altro 5% scarso fino alla laurea.

Se consideriamo le due coorti più giovani (composte da chi è nato nel 1955-60 e nel 1960-64), quasi la metà ha, invece, terminato la scuola a 14 anni, presumibilmente in corrispondenza della licenza media.

Tale agglomeramento attorno ai 14 anni è l’effetto della consistente diminuzione di uscite precoci dal sistema formativo: la percentuale di chi ha smesso di studiare in un’età precedente scende, infatti, a circa il 10%, come effetto non solo del mutamento normativo che, nel 1962, ha portato l’obbligo scolastico a 14 anni, ma anche della progressiva e più generalizzata applicazione di tale legge.

Minore è stato, invece, il mutamento per quanto riguarda la propensione a proseguire gli studi dopo la licenza media: più correttamente, sono aumentate soprattutto le uscite dal sistema formativo in corrispondenza dei 15-17 anni (che complessivamente diventano pari a quasi il 28%), suggerendoci un consistente proseguimento verso le scuole professionali, di durata bi-triennale. Decisamente contenuto, invece, l’aumento di chi ha proseguito fino al diploma e alla laurea (entrambi vanno a un 7-8%). In effetti, tali percorsi vedranno un significativo incremento solo a cavallo degli anni ’70, interessando, quindi, soprattutto i nati nei periodi successivi a quelli da noi considerati.

Congruenti con questi dati sono quelli relativi all’età di inserimento nel mercato del lavoro.

Se consideriamo le coorti più anziane, circa il 9% ha cominciato a lavorare prima dei 14 anni; circa il 21% tra i 14 e i 15; il 18% tra i 16 e i 17; il 20% tra i 18 e i 20 e il 12% tra i 21 e i 23; meno del 15% si è quindi inserito nel mercato del lavoro tra i 24 e i 30 anni e meno del 5% in età successiva.

Nelle due coorti più giovani, si contrae la percentuale di chi ha cominciato a lavorare prima dei 14 anni (che scende a meno del 3%), o a 14 anni (5%); rimane sostanzialmente stabile quella di chi ha cominciato tra i 15 e i 17, mentre aumenta, pur se in misura contenuta, quella di chi si è inserito nel mondo del lavoro tra i 18 e i 20 anni, o successivamente.

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Grafico n. 2: Età al primo lavoro per coorte di nascita

Se sulla forte contrazione degli ingressi pre-adolescenziali nel mercato del lavoro ha giocato un ruolo rilevante l’estensione e il rafforzamento dell’obbligo scolastico del 1962, hanno giocato però un ruolo importante da un lato il miglioramento, avvenuto negli anni ’60 e ‘70, delle condizioni economiche dei ceti più modesti, dall’altro la minor natalità verificatasi, anche in tali ceti, nel secondo dopoguerra. L’intreccio del mutamento sociale e di quello demografico ha quindi reso meno necessario il contributo economico al bilancio familiare dei ragazzi appartenenti ai ceti popolari, consentendo loro una progressiva posticipazione nel mondo del lavoro.

Quello che però qui ci interessa sottolineare è che questa precocità nell’uscita dal sistema scolastico e nell’entrata nel mercato del lavoro ha avuto due importanti implicazioni: una a livello macro-sociale e una a livello micro-individuale.

In primo luogo, se si considera che, fino a pochi anni fa, il pensionamento era possibile con 35 anni di anzianità contributiva, questi dati ci aiutano a capire come mai, almeno per tutti gli anni ’90 del secolo scorso vi fosse un numero consistente di persone che già a 55-60 anni risultava essere in pensione. E, anche, perché tale percentuale fosse molto maggiore rispetto a quasi tutti gli altri paesi europei nei quali la scolarizzazione di massa era avvenuta in periodi precedenti.

In secondo luogo, la così elevata presenza di persone che hanno cominciato a lavorare in un’età decisamente precoce (e spesso in attività onerose e non molto qualificate) ci aiuta a capire perché le proposte di innalzamento dell’età pensionistica abbiano trovato così forti resistenze e siano state di così difficile attuazione.

Ma ci aiuta anche a capire l’orgoglio con cui gli attuali settantenni vedono i nipoti accedere agli studi superiori per ottenere un titolo di studio ben superiore al loro.

 

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